“Why is nobody talking about taxes?”
Con queste parole un sorpreso Rutger Bregman, giovane storico e autore olandese, incalzava i suo interlocutori al Forum di Davos 2019, generando un sincero stupore negli occhi del pubblico. La domanda appare scontata posta nel contesto di uno dei più importanti congressi mondiali in materia economica, a cui partecipano alcuni tra gli esponenti più in vista del mondo politico, accademico e giornalistico.
La risposta, invece, rende necessario qualche momento di riflessione e un pizzico di immaginazione.
Perché allora, al Forum di Davos, nessuno parlava di tassazione?
La prima risposta, fin troppo ovvia, è che a nessuno piace parlare di imposte o tasse. Nell’immaginario collettivo ciò che si associa alla parola “tasse” va dal sacrificio forzato fino addirittura al furto di stato. Basti pensare all’impietoso sceriffo di Nottingham dipinto da Walt Disney nel film Robin Hood, che bussa ad ogni porta della città per riscuotere i tributi in nome del sovrano, privando i cittadini dei loro miseri risparmi. Va detto, però, che l’alone malvagio che circonda l’imposta può e deve essere combattuto e sconfitto. L’imposizione fiscale è, infatti, molto di più di un prelievo forzoso o di un fastidioso rito: è la forma con cui ogni cittadino, secondo le sue possibilità, contribuisce alla costruzione e alla sopravvivenza dello stato; è il modo di garantire l’esistenza di un’entità il cui scopo sia il benessere sociale e non del singolo; è l’individuo che si fa comunità.
La seconda risposta, un poco più ricercata, è che le imposte, soprattutto quelle dirette, abitualmente progressive, sono storicamente, dove più e dove meno, uno strumento di redistribuzione della ricchezza. Informandosi al criterio di capacità contributiva, definibile in sei semplici parole con “chi ha di più paga di più”, le imposte raccolgono risorse dai cittadini e restituiscono un servizio accessibile ed uguale per tutti, senza discriminazione alcuna fra chi ha contribuito di più e chi di meno. Questo significa che il regolatore, attraverso le imposte, può perseguire uno scopo di equità nel momento del prelievo e un’idea di giustizia sociale nel momento della spesa del gettito. Perché, anche se scontato, va ricordato che è proprio grazie al gettito delle imposte che abbiamo scuole, ospedali, servizi pubblici accessibili a tutti.
La terza e ultima risposta è complessa da articolare. Ci costringe a considerare il rapporto dialettico fra pubblico e privato, fra profitto e giustizia, fra capitale e lavoro. Ebbene sì, perché l’imposta è il baluardo del pubblico, che il privato vorrebbe abbattere per allargare il suo raggio di azione. Perché i sostenitori dello stato minimo alla Nozick (coloro che avallano l’ipotesi di uno stato alleggerito e titolare della tutela di pochi diritti essenziali) celano la ricerca di guadagno dietro la maschera dell’efficienza, dimenticando, o fingendo di dimenticare, i valori di equità e comunità. Perché ancora oggi è in atto il ricatto del capitale nei confronti dello stato che prova a tassarlo, causandone solamente la fuga e una conseguente perdita di benessere e di potere del lavoratore.
Ecco, dunque, perché non si parlava di imposte; ecco perché ha destato scalpore la domanda di Rutger Bregman. Perché l’imposizione fiscale sarebbe qualcosa di bello, avrebbe a che vedere con le fondamenta che reggono la vita in società, sarebbe uno strumento per avvicinare il bene comune, per perseguire un interesse collettivo.
Sarebbe tutto questo, se non avessimo deciso a priori che, a tutto questo, ci penserà il mercato.
Rocco Guevara
Quasi economista per sbaglio.
Mi piace vendermi come parente del Ché.
Scrivo soprattutto di cose brutte e noiose nella speranza che un giorno diventino belle e interessanti.